Oggi avrei dovuto concludere con un mio intervento il Convegno organizzato a Firenze in Regione Toscana regionale in occasione del NO D-DAY – giornata contro le discriminazioni di genere nel lavoro. Era prevista la partecipazione di rappresentanti delle istituzioni, dell’università, dell’Irpet, del mondo dei media, del sindacato e delle organizzazioni di categoria.
Riporto qui il testo di quello che avrebbe dovuto essere il mio intervento.
“Donne e lavoro, un’endiadi che indica sacrificio e libertà, limite e risorsa. Una coppia di termini il cui significato cambia radicalmente a seconda della collocazione geografica e cronologica. Un’endiadi che è un grumo di aspettative, di esperienze, di consapevolezze e di fatti, di conquiste e di mancati raggiungimenti di obiettivi…”. Scrive così la prof.ssa Muzzarelli dell’Università di Bologna nella prefazione a un bel libro dal titolo “ Donne e Lavoro: un’identità difficile”.
Il lavoro, infatti, ha la potenzialità di portare alla piena realizzazione personale e sociale.
E anche se non sempre ne ha la capacità, rimane comunque un determinante essenziale della condizione personale e familiare e anche dell’ascesa sociale. Tutto ciò però è stato molto vero per gli uomini, ma non per le donne.
Se usciamo dalla nostra contemporaneità, l’opinione diffusa è che le donne siano entrate massivamente nel mondo del lavoro dagli anni ‘ 60 in poi. Se però andiamo a guardare i dati, spesso parziali, proprio perché la presenza femminile nel mondo del lavoro era considerata poco significativa, scopriamo che donne hanno sempre lavorato, ma con modalità legate a una organizzazione sociale imposta da un mondo al maschile. Lavori impegnativi, ma spesso aggiustati, interstiziali rispetto al ruolo previsto per le donne nella società, lavori non specializzati, non scelti, con pochi riconoscimenti e regolarmente meno retribuiti. Escluso da tutto questo il lavoro svolto a domicilio.
Un po’ di storia
Per darvi un dato, nel XVIII secolo si calcola che il 12% della popolazione urbana fosse rappresentato dalle “domestiche” genericamente intese, vi erano poi le donne occupate nelle osterie, le sarte, le cameriere e così via. Già nel XIX secolo si comincia ad avere notizia di malattie professionali femminili. Nel periodico “La donna socialista” le merlettaie della Riviera Ligure vengono definite “silenziose e rassegnate”. Si legge: “le donne che dai 5 anni alla decrepitezza lavorano le belle trine del tombolo (…) costrette a ore e ore con il busto curvo appoggiato al cavalletto (…) esposte a costipazione cronica, emorroidi, malattie del basso ventre, deviazione della colonna vertebrale…”. Si citano anche malattie professionali a carico di operaie, cotoniere, cenciaiole, lavoranti di cappelli, pellicce, spazzole e così via. Sullo stesso periodico si denuncia il fatto che i salari sono nettamente inferiori rispetto a quelli degli uomini a parità di mansioni e di orari di lavoro e che nel lavoro svolto a casa lo sfruttamento è altissimo.
Nel corso dell’800 e del ‘900 si espandono le possibilità di inserimento lavorativo per le donne fuori dalle mura domestiche, in particolar modo nel settore impiegatizio dei servizi e del commercio, ma non cala lo stereotipo che mancare da casa non è un bene per il ruolo di moglie e madre. E’ proprio nell’età moderna che la figura della donna salariata viene combattuta, come innaturale e detestabile; spetta all’uomo il compito di mantenere la famiglia, se il lavoro femminile è necessario deve svolgersi nell’ambito domiciliare, alle donne sono “lasciati” lavori precisi, ritenuti adatti, in relazione ad una assolutamente “ connaturata” sensibilità. Come l’ostetrica (anche perché agli uomini, per morale, era proibito fare visite ginecologiche); la maestra, per la sua “vicinanza” al ruolo materno. Ci si domanda però se una donna può insegnare in classi maschili: ci vorrà la forza morale del maestro per mantenere la disciplina? A lungo si opterà per classi distinte, perché non si possono mescolare lupi e agnelli, nibbi e colombe.
Nelle due guerre mondiali la presenza delle donne nel mondo del lavoro, sia nell’agricoltura, sia nell’industri bellica, diviene essenziale. Nel 1917 il ministro dell’Agricoltura Ranieri afferma: “Nessuno saprà mai mettere abbastanza in luce il paziente lavoro, la tranquilla rassegnazione, la pertinace costanza della donna di campagna, alla quale è dovuto in gran parte se la terra, priva di tante braccia valide e di volontà operose date alla guerra, ancora produce di che alimentare le genti italiane”. Finita la prima guerra mondiale, la necessità di “sicurezza” rimise però di nuovo le donne nei ranghi dei ruoli familiari, procreativi e materni.
Durante il fascismo il corpo della donna è nazionalizzato, la maternità è un dovere nei confronti della patria, nel codice Rocco l’aborto è “un delitto contro l’integrità e la sanità della stirpe”. Le donne erano comunque presenti nel mondo del lavoro, ma molti vedevano in questo una minaccia alla moralità; molti lavori vennero preclusi, fra cui l’incarico di preside, di insegnante di filosofia, storia, economia, lettere; nel 1934 si arrivò per legge a poter escludere o limitare le assunzioni per le donne.
Dopo la fine del secondo conflitto mondiale, come scrive Miriam Mafai ne “L’apprendista della Politica”, sarà diffuso il grido “Via le donne dalle fabbriche “ “… lavorano solo per rossetto e calze di seta”, e anche alcuni partigiani socialisti e comunisti si esprimono in tal senso. Su “ Noi donne” si afferma: “al ritorno del reduce dovrai essere molto arrendevole, non dovrai imporre la tua volontà…”. Deve essere arrendevole la donna, nella vita e nel fare politica.
La consapevolezza della donne è però cambiata, afferma Marisa Rodano: “Contro il fascismo e contro l’oppressore tedesco abbiamo lottato accanto ai nostri uomini, con tenacia e con coraggio nei duri mesi dell’occupazione. Sentiamo di esserci così acquistato il diritto di partecipare pienamente all’opera di ricostruzione del nostro paese. Confidiamo pertanto che la nostra legittima aspirazione sia presa in esame dagli uomini di governo e sia finalmente resa alle donne d’Italia quella giustizia e quella uguaglianza di diritti che è alla base di ogni ordinamento veramente democratico”. E ancora: ”il diritto di eleggere e di essere elette le donne italiane se lo sono conquistato combattendo nell’Italia occupata”.
Quelle donne continuarono a combattere, come costituenti, modificando interi articoli della costituzione. Nell’articolo 3 Lina Merlin fa scrivere “senza distinzione di sesso”, perché la parola cittadino le pareva sottintendesse uomo con i pantaloni. L’art. 37 dice: “La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione”. Nella stesura dell’articolo ci fu un’accesa discussione sulla funzione familiare della donna e sulla parola “ essenziale”, sembrava infatti che si volesse costantemente relegare il ruolo della donna. Nell’articolo 51 si legge: “Tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. Da tale articolo scomparve la parola “attitudini”, perché Maria Fedici affermò che “le attitudini si provano con il lavoro, escludere le donne da alcuni lavori significherebbe non provare mai le loro attitudini”. L’Articolo ic.106 stabilisce che “Le nomine dei magistrati hanno luogo per concorso”, articolo che superò non pochi stereotipi sull’impossibilità delle donne di essere lucide nel giudizio in alcuni giorni del mese.
Molte altre saranno le battaglie negli anni 60-70: la modifica del diritto di famiglia, il delitto d’onore, la 194, il divorzio, la violenza sessuale che passa da reato contro la morale a reato contro la persona (norma che però dal 1979 diventa legge nel 1996), mentre il matrimonio riparatore di retaggio fascista sopravvive fino al 1981.
E adesso?
Strada ne è stata percorsa molta, ma molta altra ce ne è da percorrere. A mio avviso non solo su un piano meramente normativo, ma soprattutto su un “piano culturale”, che sottende strisciante ai ritardi normativi pregressi e attuali e che favorisce, per non dire giustifica, le discriminazioni che subiamo sul piano salariale e di ruolo.
Uso il termine “subiamo”, perché anche coloro che oggi sono qui intervenute e che hanno la possibilità di affermare di aver scelto liberamente il proprio ruolo nella società, almeno una volta si sono sentite etichettate con uno qualunque dei tanti “ stereotipi” con cui si descrivono le donne.
E’ il “sessismo benevolo” dice la sociologia, che ci definisce spesso, in vari ambiti. Si tratta di quell’insieme di atteggiamenti elogiativi nel tono, che rischiano di ridurci a macchietta; un sessismo che voleva le prime parlamentari amabili, gentili, al loro posto e che trasversalmente continuava a vedere nella donna l’angelo del focolare. Un sessismo che insiste sull’aspetto fisico, raramente preso in considerazione negli uomini, quasi una categoria politica: deforme e sgraziata, una zitella mascolinizzata, veniva definita la senatrice Merlin. In tempi più recenti: “è sempre più bella che intelligente” – diceva Berlusconi di Rosy Bindi; nel ’48 Laura Diaz viene eletta parlamentare e di lei ci si chiede se “il plebiscito su di lei sia offerto alla sua bellezza o alle sue capacità”; Nicola Morra dice della Boschi: “con queste copertine sarà ricordata più per le forme che per le riforme” e potrei aggiungere molti altri esempi.
Tante le illazioni, le battutine, le modalità che in qualche modo cercano un’altra spiegazione rispetto al perché una donna occupi un ruolo, a quanto per svolgerlo abbia dato in cambio, a quanto “abbia le palle” o trascuri figli e famiglia, perché niente come l’inserimento delle donne nel mondo del lavoro ha comportato una profonda trasformazione dell’organizzazione sociale, riducendo progressivamente la separazione fra ruolo maschile e femminile. Che è ridotta nei fatti, ma che finisce per scaricare sulle donne lavoro e lavoro di “cura” e che soprattutto e solo in parte è superata culturalmente.
Le giovani donne hanno livelli di istruzione più elevati rispetto ai loro pari uomini, tuttavia persiste un grande differenziale a loro sfavore nei tassi di occupazione all’uscita dagli studi, maggiore precarietà nei dottorati di ricerca; nei periodi di crisi economica per le donne si registra un aumento del part-time involontario e del fenomeno della sovra istruzione; tutto questo, sommato al minor accesso alle figure apicali e a carriere discontinue, determina differenziali di genere nei redditi da lavoro. I padri e le madri descrivono gli stessi problemi di conciliazione figli-lavoro, ma continuano ad essere soprattutto le donne a modificare la propria attività lavorativa per combinare le esigenze di cura, riducendo l’orario di lavoro o interrompendolo. Diminuisce, infatti, l’asimmetria nella ripartizione del lavoro familiare, ma permane per il 67% sulle donne, il cui pilastro, se lavoratrici, continuano ad essere i nonni. Nel 57% dei casi le donne occupate svolgono, comunque, oltre 60 ore di lavoro alla settimana. Non possiamo non considerare che la disponibilità di posti nei servizi educativi è pari al 27,4%, ben lontana dal parametro europeo del 33%, e comunque con una distribuzione territoriale che vede il sud fortemente penalizzato, in particolare nei servizi svolti dal pubblico. Servizi educativi che in tutto il paese scontano la difficoltà di una scarsa flessibilità; senza citare il ricorso alle cosiddette “sezioni primavera”, il cui utilizzo è proporzionalmente maggiore al sud, probabilmente perché il loro costo è solo quello della mensa.
Il ruolo della Politica
Se i dati sono “numeri”, ciò che c’è dietro deve interessare la politica: quanto riusciamo davvero a scegliere liberamente rispetto a ciò che vogliamo fare e vogliamo essere? Quanto siamo ancora schiacciate dagli stereotipi che ci vogliono “in un certo modo”, anche nei ruoli apicali che occupiamo,? Carine, sensibili, ben vestite e di bell’aspetto, ma non troppo, altrimenti sicuramente sciocche e lì per altri motivi. Quanto realmente possiamo scegliere o quanto continuiamo a scegliere in un certo modo perché così è da sempre, anche se, suvvia, è parecchio migliorata…
Voglio banalizzare, quanto sentiamo nella nostra testa, nelle nostre azioni che dobbiamo o non dobbiamo fare una scelta perché è o non è da donna? Credo che questo aspetto sia ancora molto presente in noi e si associa a una organizzazione della società in cui pochi sono i servizi, poca l’organizzazione degli stessi che ci favorisca nello scegliere liberamente.
Siccome guadagni meno il part-time prendilo tu, in fondo se assisti tu l’anziano in casa si risparmia, siccome arrivi più tardi ad ottenere un ruolo, fermati prima, accontentati di altro, di meno…
Un meccanismo a ripetere, che alimenta disuguaglianze: minore reddito, minori possibilità, perché in fondo il corso d’inglese va pagato, lo sport va pagato e così via, ma alla madre lavoratrice con un buon stipendio tutto questo viene più facile, anche conciliare lavoro e famiglia. Per la donna del sud è invece quasi “naturale” stare a casa: tra ruolo imposto dalla società, carenza di lavoro e di servizi, la scelta è “obbligata”.
Quanto è ancora faticoso scegliere se essere madre e lavoratrice? O scegliere di non essere madre? Eppure una società che consente alle donne di scegliere è una società più avanzata in termini di qualità della vita. Anche le aziende private devono far diventare loro patrimonio culturale il fatto che investire in benessere dei propri dipendenti significa guadagno in produttività, in innovazione. Se le persone stanno bene, se vedono la coerenza con chi sono, se hanno la possibilità di portare la propria autenticità in azienda, lavorano meglio e producono di più. E non c’è alternativa: siamo arrivati al punto che le aziende devono urgentemente occuparsi anche di questi temi, che valgono tanto di più per le donne.
Il valore della diversità
La diversità è un valore economico e le donne sono state chiamate a giocare il proprio ruolo anche negli ambiti del potere, ma dobbiamo superare un limite: smettere di adattarci alle regole vigenti, ai modelli comportamentali e di leadership costruiti negli anni, che appartengono alla sfera maschile”, dobbiamo interpretarli alla nostra maniera.
Dice Riccarda Zezza: “L’opportunità che abbiamo oggi tra le mani è potente: abbiamo la possibilità di cambiare l’evoluzione della nostra specie, cambiare i valori, invece che farci cambiare da loro, abbiamo la responsabilità di portare le nostre logiche di potere, perché funzionano! Non si tratta di aiutare le donne, ma di aiutare il mondo attraverso le donne”.
Forse è questa la battaglia che spetta alla nostra generazione, per noi e per le donne dopo di noi.