Idy Diene era un cittadino senegalese, in Italia da 20 anni, faceva il venditore ambulante. Chi lo conosceva può dirne solo un gran bene: una persona serena, eccezionale. Lo chiamavano il saggio della comunità. Roberto Pirrone, l’uomo che lo ha ucciso, voleva rifarsela con qualcuno a caso, un vecchio, riportano i giornali, una vita di serie b. Il suo obiettivo era quello di non tornare a casa. Troppi problemi, preferiva il carcere. Avrà pensato che Idy, pur non essendo il vecchio che cercava, potesse rappresentare la serie b dell’umanità: il male minore verso cui scaricare tutta la sua frustrazione. Le carte dicono che Pirrone non aveva niente a che vedere con movimenti estremisti. Ma il razzismo è anche inconsapevole.
Con questa tragedia, la seconda che a Firenze colpisce la comunità senegalese, esplodono con veemenza la violenza e le contraddizioni profonde che invadono le nostre comunità. Una volta sdoganato chi fomenta l’odio, concesso il porto d’armi con troppa facilità, messe in discussione realtà che operano per la pace e l’integrazione tra popoli e culture, il vuoto si trasforma in tragedia. Non dobbiamo rinunciare a capire che cosa è successo. Il dramma è sotto gli occhi di tutti.
Solidarietà alla comunità senegalese, alla moglie di Idy, Rokhaya Mbengue, vedova per la seconda volta: il suo primo marito, Samb Modou, fu vittima della strage del 2011 in piazza Dalmazia. Una storia spietata. Racconto di un tempo che non vorremmo fosse né il nostro né quello dei nostri figli. E che dobbiamo fare di tutto per cambiare.
Sul Ponte Vespucci ci sono fiori e scuse. Anch’io ieri ho preso parte al presidio organizzato lì dalla comunità senegalese. Una comunità profondamente ferita alla quale sono vicina e che invito a contrapporre alla gravità dei fatti che l’hanno colpita la voglia di mantenere e rafforzare un dialogo costruttivo con le istituzioni. È stando insieme e sentendosi tutti cittadini che possiamo superare chi ci vorrebbe tenere divisi gli uni contro gli altri.
Tutta l’umanità è ferita.