Oggi sono 70 anni dal giorno in cui gli italiani e le italiane, chiamati a scegliere tra la monarchia e la Repubblica, scelsero la seconda. E così tra le ferite ancora aperte del fascismo e della guerra nacque la nostra democrazia.
Solo tre mesi prima, per l’elezione dell’Assemblea costituente, le donne avevano ottenuto per la prima volta il diritto di votare e di essere votate. Prima di allora l’esclusione delle donne dalla vita politica e dal governo della cosa pubblica era una cosa normale, da dare per scontata.
Quelle donne che nel 1946 votarono al referendum, consapevoli della portata storica del loro voto, parteciparono alla nascita dell’Italia e il riconoscimento dei diritti politici delle donne costituì un elemento fondativo della nostra Repubblica.
Inutile dire che tanta strada è stata fatta da allora ad oggi. Mentre è bene ricordare quanta ancora ne resti da fare perché la nostra democrazia possa dirsi davvero compiuta dal punto di vista delle pari opportunità, degli stessi diritti e della possibilità di scegliere liberamente riguardo alla propria vita e al proprio posto nella società.
Molto di quello che è stato raggiunto sulla carta, nelle leggi e nelle norme, resta purtroppo ancora da declinare nella vita reale delle donne. I dati ci parlano di un’Italia dove il tasso di occupazione femminile non raggiunge il 50%, a trenta punti di distanza dall’occupazione maschile.
Dove ben una donna su tre abbandona il lavoro dopo la nascita di un figlio. Dove le donne guadagnano mediamente il 10% in meno rispetto ai colleghi uomini, percentuale che cresce all’aumentare del livello d’istruzione. Dove il 72% del carico di lavoro domestico ricade sulle donne e solo il 18% dei bambini trova posto in un asilo nido pubblico.
E si potrebbe continuare ancora, fino ad arrivare al dato più tragico: 1740 donne uccise negli ultimi dieci anni, 55 in questi primi 5 mesi del 2016. Quasi tutte all’interno dell’ambiente domestico, per mano di un marito, un fidanzato o un ex.
A settanta anni di distanza, noi donne dobbiamo ambire ad avere un ruolo di primo piano nell’elaborazione delle pensiero politico e culturale del Paese e a divenirne un punto di riferimento.
E un pensiero va a Sara, che non potrà più votare.